lunedì 19 marzo 2012

Quattro ore.

Uomini e donne scrivono su agendine, io non ho dietro l'agendina, scrivo sul foglio promemoria di Poste Italiane. Quanta serietà. Delle cabine di vetro sospese in aria circondano il perimetro aereo della sala, poltrone rosse, colonne verdi, pareti triangolari in legno. Sì, la sala mi fa decisamente cacare. I vetri delle cabine volanti mostrano un punto di vista differente della sala: laterale dall'alto, teste e fogli bianchi. La fauna è variegata. Una faccia di culo pelata siede accanto a me. Dice che è un produttore televisivo. Al suo fianco, una faccia di culo in bianco, orecchini enormi. Se la intendono. Avanti, un vecchio spizza le cosce di tutte le facce da segretaria. Si volta, sorride, fa lo splendido con la donna più frigida del mondo. Rabbrividisco. Da sinistra un vocio continuo, fastidioso, distoglie la mia attenzione più e più volte. Ma sono Pepé e Cocò, un francese e in allegato il traduttore, bggg brr vvrr tacatacataca. Decido di abituarmi, non posso fare altro. Più avanti una giacca color oro e unghie celesti contrastano il colore scuro della nera. E' una bomboniera, di cattivo gusto, ma si muove con gran classe. L'altra parte della sala è più anonima, due mangiamani a parte: sono due giornalisti che, tra un appunto e un altro, mangiano le secrezioni di non so quale parte del corpo con naturalezza, si leccano le mani. Mi viene da vomitare. Conati. Rabbrividisco nuovamente. C'è un uomo col turbante blu, è simpatico e ha gli occhi blu, la tunica grigia. La moglie, invece, è tutta in bianco. La figlia meravigliosa.
Nelle file iniziali, schierati come i più valorosi e temerari combattenti in battaglia, c'è l'Africa. E lei, pelle nera occhi verdi, criniera di leone, padroneggia la savana e si appoggia ad una stampella.

sabato 10 dicembre 2011

L'ordine

http://www.youtube.com/watch?v=-0INYbZm2D8&feature=g-vrec


La luce pesa sugli oggetti e le persone. Vado via, già manca qualcosa. Entro nei grandi negozi, la disperazione e l'eccitazione ne fanno da padrone. All'interno i pensieri galleggiano a cinque metri da terra e si distinguono per bene dalla folla. Si tengono legati per mano grazie ad un filo di nylon, non sia mai dovessero scappare. Mi lascio trascinare dall'onda, profumi e cosmetici che non ho intenzione di comprare, borse e cappelli da donna improponibili e i miei pensieri si sistemano sugli scaffali della Coin, ordinati. Nel caos generale dei regali di Natale, i pensieri si ordinano. Li osservo per un po' nello specchio delle lenti nel reparto degli occhiali. Nell'inutilità lo stomaco riposa. Però, sinceramente, mi sto rompendo le palle, esco. Dove è più interessante.

I metallari hanno il cuore grande.

E' il metallaro più vero della storia
la persona più dolce al mondo.
Ha occhi solo per lei, parole solo per lei
baci e carezze.
L'aiuta a scendere dall'autobus. Col suo
scarso metro d'altezza non ci riuscirebbe.

E' la bambina più curiosa della storia
la figlia del metallaro più dolce al mondo.
Con gli occhi gli chiede cose, guarda dal finestrino.
Sa dove andare.
La sedia rossa è un trono,
l'autobus il suo regno.

Si prendono per mano, "E op!" dice lui. Poi scende.

domenica 24 luglio 2011

Mancanze dimenticate e dimenticanze mancate.

ASCOLTO: http://www.youtube.com/watch?v=wQNCuIx9R3Q


L’odore è familiare. Più dell’odore di casa. Un misto di umidità, di vecchi muri e vecchi abiti, fumo di sigaretta e polvere. Al centro c’è sempre stato un tavolo massiccio di legno, intagliato in seguito con disegni e scritte, e, intorno, sedie. Tante sedie: legno, rosse, plastica nera, sgabelli. Ci sono tutt’ora.
E’ una costante ascesa. Per accedervi bisogna salire cinque scalini in pietra, fare due metri a piedi, passare per il portoncino di legno ed entrare nella stanza degli abiti impolverati tramite altri sei scalini in pietra. Passare per la stanza delle sedie è un po’ complicato, arrivare alle scalette in legno che portano sul palcoscenico, più che uno sforzo fisico, richiede uno sforzo psicologico. Dal palchetto si ha tutta la situazione sotto gli occhi, anche il soppalco. Si devono sempre accendere le luci, c’è solo una finestra su un lato, buio. L’interruttore dell’ingresso sulla sinistra e quello della stanza delle sedie e del palchetto sulla destra. Un pulsante per i faretti sul palco, uno per quello da sotto il soppalco e uno per la luce generale sul tavolo. Una volta c’era il telefono fisso. C’è ancora ma è staccato, si decise che era meglio il cellulare. C’è anche un computer rotto, uno stereo con vari mixer. I muri sono tappezzati di poster e cornici, dalla metà dei ’70 all’anno scorso. Sotto il palco, incorniciato dal sipario rosso, ci sono due contenitori enormi di legno, vomitano scarpe di ogni tipo e di ogni numero. Sul palco pure ci sono, ma sistemate negli appositi scatoli. Sul muro finale sono appese delle maschere. Sul tavolo è poggiato una barattolino di gelato Sammontana vari gusti, non ha mai contenuto il gelato, sempre tante penne ed evidenziatori. Anche la taglierina con cui è stato intagliato il tavolo. Una TV funzionante con lettore dvd, fax, i cassetti con le buste per gli inviti e i fogli a4, la rubrica verde e le varie planimetrie della sala all’aperto.
La sala all’aperto (un cortile con palme) è libera solo da due lati del rettangolo, campagna case. Viene utilizzata come palestra in inverno quando non piove, dai ragazzi del liceo.  Per gli altri due lati è circondata dalle finestre e dalle arcate dell’edificio del Convitto nazionale. In estate veniva montato il palco sul lato della palestra per i ragazzi del liceo in inverno quando piove, col parquet e con la polvere. Lì si montavano e si pulivano i camerini. Una gradinata gigante, in origine il nulla, poi una piattaforma con le gradinate alla fine, poi l’evoluzione decisiva –Si vede bene da tutte le parti- con la moquette o rossa o verde. Nel corridoio per accedere al cortile sulla sinistra ci sono i cessi e il chiosco. Luogo di calcetto a quattro, di lavoro per lo scenografo e di prove per gli attori quando il caldo impediva di stare dentro, sul palchetto. Lì, il cielo è uccello. Al piano di sopra, gli ambienti della scuola elementare e del liceo classico. Ma anche una sala con palco, poche volte utilizzata ai tempi del laboratorio.
Entrare in qualsiasi posto di questi, voleva dire trovarci necessariamente lui, con una sigaretta in mano. Tutt’ora è così. 

martedì 19 luglio 2011

il giardino nuovo

ASCOLTO: http://www.youtube.com/watch?v=Myd01olQ-Lc


Pasquale siede sulla sdraio nel suo nuovo giardino, nella sua nuova casa. Il giardino l’ho appena annaffiato, il laccio della pompa scola sul muretto adiacente alla porta di ingresso. Le zolle d’erba sono pregne d’acqua, c’è odore di terra. Prende il cellulare dal taschino della sua camicia di jeans e cerca un numero in rubrica.
-Devo fare una chiamata, mi pubblicano.-. E’ sbracato sulla sedia, il trasloco è straziante, si consola col solito Toscanello. Prende gli occhiali da sole, è già al telefono, facendomi notare le lenti scure. –Gli ho messo le lenti più scure.- e li indossa.
Dal garage della vecchia casa escono fuori sessant’anni di storia. Si chiacchiera, si ride. Si trovano soluzioni semplici a grandi problemi: mettere dritta una libreria che vuole stare storta, cercare di segare un centimetro quadro di plastica dura, così ti sego un dito però.  –Chiederò domani agli operai, loro hanno il flex.- approvo. Dovremmo avere un cervello Cinghiale.
La chiamata dura poco, il tempo di sistemare un paio di cose e di chiedere dove stesse spalancando le chiappe al sole, l’amico dall’altra parte. Riaggancia. Mi racconta di quanto si diverte a puntare col getto d’acqua le lucertole sui muri e di quanto sia stancante il trasloco.
Stanno citofonando, apri.

lunedì 18 luglio 2011

La tartaruga non ne è a conoscenza.

ASCOLTOhttp://www.youtube.com/watch?v=6oqXVx3sBOk&feature=relmfu


-La tua tartaruga mi sta osservando.-, -No, ti sbagli.-, -Ripeto, la tua tartaruga mi osserva.-. Così esordisco mentre siedo sul gabinetto, gambe accavallate. Lei fa capolino dall’altra stanza, quella della TV accesa. Poggia il braccio allo stipite della porta aperta, e parla. Indica spesso fuori col pollice. –Aspetta, ripeti. Non mi concentro con la bestia che mi osserva.-. Mi tiene aggiornata su accadimenti poco o più importanti e di tanto in tanto si guarda le punte dei piedi e muove il culo a destra e a sinistra. Si passa la mano tra i capelli, dietro le orecchie. Io faccio lo stesso, seduta sul gabinetto. Assumo una posa seriosa: gambe accavallate, gomito poggiato al mobiletto sulla sinistra, mano dello stesso braccio sotto il mento. In tensione, interessata al discorso, insomma. Come seguire una lezione e trovare a tutti i costi una distrazione, pur non volendo. E lo sguardo finisce sugli occhi della tartaruga sul mobiletto, dritti su di me. Sbuffo, ma continuo ad ascoltarla. La questione è che lei non lo sa. Pensa mi stia annoiando con i suoi discorsi; in effetti non rispondo. Mi limito ad ascoltare e a fare qualche domanda.
I vicini hanno dei pappagalli in una gabbia, fuori il terrazzo. Hanno anche un bambino che spesso cade e si fa male. I pappagalli cantano, si parlano. I gatti del territorio sono più di sette. Ora sanno cosa fare. Aprire la gabbia e uccidere i pappagalli dei vicini. A quanto pare, ultimamente, scene di agguati calcolati molto male si possono vedere dal balcone che dà sul giardino dei vicini. Ma i pappagalli stanno immobili quando il randagio nero si avvicina alla gabbia. È capace anche di saltarci sopra, starci per qualche secondo e sentire l’instabilità della situazione. Riscendere. In effetti la signora qui accanto non è poi così un genio.
-Domani darò un’occhiata.- le dico. Lei mi fa un cenno di approvazione con la testa, si volta e scende le scale. Io mi alzo dal gabinetto e poggio le mani sul mobiletto a sinistra. Braccia tese. Guardo la tartaruga dall’alto. I gatti non lo sanno, ma lei fa il tifo per loro.

lunedì 11 luglio 2011

5 giugno 2011, Roma

Ascolto: http://www.youtube.com/watch?v=gWufCLzYpdY


-Vuoi un ombrello?-, -No, grazie. Non ti preoccupare.-. -Non c’è mica da preoccuparsi per un ombrello.-, -Ha smesso di piovere.-. Non credo di aver commesso un errore. Scendo le scale, lui è lì che mi osserva affacciato alla ringhiera dell’interno dell’androne. Dal quinto al secondo piano alzo la testa di tanto in tanto: fanculo; sei bello; ti faccio un mazzo così e ridiamo. Poi ciao, la porta si chiude. No, non ho sbagliato, piove ancora e  va bene così. Un respiro, un sorriso e via sotto la pioggia. Confondimi, rapiscimi. In estate, la pioggia è una boccata d’aria fresca nella gabbia afosa dei giorni “normali”. È bene approfittarne nei pomeriggi delle domeniche solitarie. Se accetti questa condizione primordiale, devi accettare inevitabilmente anche il mal di testa.  Cammino sotto la pioggia, ho i capelli zuppi, la camicia tutt’uno col corpo e il jeans  nero dall’acqua. Appena  uscita dalla doccia, vestita. Incessante, sempre più forte viene giù, non ha alcuna intenzione di smettere. Dai, scendi troia, scopami. Penso. Non se lo fa neanche dire, il cielo sta venendo e io con lui. Ho la musica nelle orecchie, tendo le braccia verso l’esterno. Spalanco le mani. Tocco la pioggia. I passanti sotto gli ombrelli mi sorridono, io, invece, rido. È  stupendo perdersi. Adesso un po’ meno, ho mal di testa. Non ho commesso un errore, è stato bello fare all’amore con lei.