sabato 10 dicembre 2011

L'ordine

http://www.youtube.com/watch?v=-0INYbZm2D8&feature=g-vrec


La luce pesa sugli oggetti e le persone. Vado via, già manca qualcosa. Entro nei grandi negozi, la disperazione e l'eccitazione ne fanno da padrone. All'interno i pensieri galleggiano a cinque metri da terra e si distinguono per bene dalla folla. Si tengono legati per mano grazie ad un filo di nylon, non sia mai dovessero scappare. Mi lascio trascinare dall'onda, profumi e cosmetici che non ho intenzione di comprare, borse e cappelli da donna improponibili e i miei pensieri si sistemano sugli scaffali della Coin, ordinati. Nel caos generale dei regali di Natale, i pensieri si ordinano. Li osservo per un po' nello specchio delle lenti nel reparto degli occhiali. Nell'inutilità lo stomaco riposa. Però, sinceramente, mi sto rompendo le palle, esco. Dove è più interessante.

I metallari hanno il cuore grande.

E' il metallaro più vero della storia
la persona più dolce al mondo.
Ha occhi solo per lei, parole solo per lei
baci e carezze.
L'aiuta a scendere dall'autobus. Col suo
scarso metro d'altezza non ci riuscirebbe.

E' la bambina più curiosa della storia
la figlia del metallaro più dolce al mondo.
Con gli occhi gli chiede cose, guarda dal finestrino.
Sa dove andare.
La sedia rossa è un trono,
l'autobus il suo regno.

Si prendono per mano, "E op!" dice lui. Poi scende.

domenica 24 luglio 2011

Mancanze dimenticate e dimenticanze mancate.

ASCOLTO: http://www.youtube.com/watch?v=wQNCuIx9R3Q


L’odore è familiare. Più dell’odore di casa. Un misto di umidità, di vecchi muri e vecchi abiti, fumo di sigaretta e polvere. Al centro c’è sempre stato un tavolo massiccio di legno, intagliato in seguito con disegni e scritte, e, intorno, sedie. Tante sedie: legno, rosse, plastica nera, sgabelli. Ci sono tutt’ora.
E’ una costante ascesa. Per accedervi bisogna salire cinque scalini in pietra, fare due metri a piedi, passare per il portoncino di legno ed entrare nella stanza degli abiti impolverati tramite altri sei scalini in pietra. Passare per la stanza delle sedie è un po’ complicato, arrivare alle scalette in legno che portano sul palcoscenico, più che uno sforzo fisico, richiede uno sforzo psicologico. Dal palchetto si ha tutta la situazione sotto gli occhi, anche il soppalco. Si devono sempre accendere le luci, c’è solo una finestra su un lato, buio. L’interruttore dell’ingresso sulla sinistra e quello della stanza delle sedie e del palchetto sulla destra. Un pulsante per i faretti sul palco, uno per quello da sotto il soppalco e uno per la luce generale sul tavolo. Una volta c’era il telefono fisso. C’è ancora ma è staccato, si decise che era meglio il cellulare. C’è anche un computer rotto, uno stereo con vari mixer. I muri sono tappezzati di poster e cornici, dalla metà dei ’70 all’anno scorso. Sotto il palco, incorniciato dal sipario rosso, ci sono due contenitori enormi di legno, vomitano scarpe di ogni tipo e di ogni numero. Sul palco pure ci sono, ma sistemate negli appositi scatoli. Sul muro finale sono appese delle maschere. Sul tavolo è poggiato una barattolino di gelato Sammontana vari gusti, non ha mai contenuto il gelato, sempre tante penne ed evidenziatori. Anche la taglierina con cui è stato intagliato il tavolo. Una TV funzionante con lettore dvd, fax, i cassetti con le buste per gli inviti e i fogli a4, la rubrica verde e le varie planimetrie della sala all’aperto.
La sala all’aperto (un cortile con palme) è libera solo da due lati del rettangolo, campagna case. Viene utilizzata come palestra in inverno quando non piove, dai ragazzi del liceo.  Per gli altri due lati è circondata dalle finestre e dalle arcate dell’edificio del Convitto nazionale. In estate veniva montato il palco sul lato della palestra per i ragazzi del liceo in inverno quando piove, col parquet e con la polvere. Lì si montavano e si pulivano i camerini. Una gradinata gigante, in origine il nulla, poi una piattaforma con le gradinate alla fine, poi l’evoluzione decisiva –Si vede bene da tutte le parti- con la moquette o rossa o verde. Nel corridoio per accedere al cortile sulla sinistra ci sono i cessi e il chiosco. Luogo di calcetto a quattro, di lavoro per lo scenografo e di prove per gli attori quando il caldo impediva di stare dentro, sul palchetto. Lì, il cielo è uccello. Al piano di sopra, gli ambienti della scuola elementare e del liceo classico. Ma anche una sala con palco, poche volte utilizzata ai tempi del laboratorio.
Entrare in qualsiasi posto di questi, voleva dire trovarci necessariamente lui, con una sigaretta in mano. Tutt’ora è così. 

martedì 19 luglio 2011

il giardino nuovo

ASCOLTO: http://www.youtube.com/watch?v=Myd01olQ-Lc


Pasquale siede sulla sdraio nel suo nuovo giardino, nella sua nuova casa. Il giardino l’ho appena annaffiato, il laccio della pompa scola sul muretto adiacente alla porta di ingresso. Le zolle d’erba sono pregne d’acqua, c’è odore di terra. Prende il cellulare dal taschino della sua camicia di jeans e cerca un numero in rubrica.
-Devo fare una chiamata, mi pubblicano.-. E’ sbracato sulla sedia, il trasloco è straziante, si consola col solito Toscanello. Prende gli occhiali da sole, è già al telefono, facendomi notare le lenti scure. –Gli ho messo le lenti più scure.- e li indossa.
Dal garage della vecchia casa escono fuori sessant’anni di storia. Si chiacchiera, si ride. Si trovano soluzioni semplici a grandi problemi: mettere dritta una libreria che vuole stare storta, cercare di segare un centimetro quadro di plastica dura, così ti sego un dito però.  –Chiederò domani agli operai, loro hanno il flex.- approvo. Dovremmo avere un cervello Cinghiale.
La chiamata dura poco, il tempo di sistemare un paio di cose e di chiedere dove stesse spalancando le chiappe al sole, l’amico dall’altra parte. Riaggancia. Mi racconta di quanto si diverte a puntare col getto d’acqua le lucertole sui muri e di quanto sia stancante il trasloco.
Stanno citofonando, apri.

lunedì 18 luglio 2011

La tartaruga non ne è a conoscenza.

ASCOLTOhttp://www.youtube.com/watch?v=6oqXVx3sBOk&feature=relmfu


-La tua tartaruga mi sta osservando.-, -No, ti sbagli.-, -Ripeto, la tua tartaruga mi osserva.-. Così esordisco mentre siedo sul gabinetto, gambe accavallate. Lei fa capolino dall’altra stanza, quella della TV accesa. Poggia il braccio allo stipite della porta aperta, e parla. Indica spesso fuori col pollice. –Aspetta, ripeti. Non mi concentro con la bestia che mi osserva.-. Mi tiene aggiornata su accadimenti poco o più importanti e di tanto in tanto si guarda le punte dei piedi e muove il culo a destra e a sinistra. Si passa la mano tra i capelli, dietro le orecchie. Io faccio lo stesso, seduta sul gabinetto. Assumo una posa seriosa: gambe accavallate, gomito poggiato al mobiletto sulla sinistra, mano dello stesso braccio sotto il mento. In tensione, interessata al discorso, insomma. Come seguire una lezione e trovare a tutti i costi una distrazione, pur non volendo. E lo sguardo finisce sugli occhi della tartaruga sul mobiletto, dritti su di me. Sbuffo, ma continuo ad ascoltarla. La questione è che lei non lo sa. Pensa mi stia annoiando con i suoi discorsi; in effetti non rispondo. Mi limito ad ascoltare e a fare qualche domanda.
I vicini hanno dei pappagalli in una gabbia, fuori il terrazzo. Hanno anche un bambino che spesso cade e si fa male. I pappagalli cantano, si parlano. I gatti del territorio sono più di sette. Ora sanno cosa fare. Aprire la gabbia e uccidere i pappagalli dei vicini. A quanto pare, ultimamente, scene di agguati calcolati molto male si possono vedere dal balcone che dà sul giardino dei vicini. Ma i pappagalli stanno immobili quando il randagio nero si avvicina alla gabbia. È capace anche di saltarci sopra, starci per qualche secondo e sentire l’instabilità della situazione. Riscendere. In effetti la signora qui accanto non è poi così un genio.
-Domani darò un’occhiata.- le dico. Lei mi fa un cenno di approvazione con la testa, si volta e scende le scale. Io mi alzo dal gabinetto e poggio le mani sul mobiletto a sinistra. Braccia tese. Guardo la tartaruga dall’alto. I gatti non lo sanno, ma lei fa il tifo per loro.

lunedì 11 luglio 2011

5 giugno 2011, Roma

Ascolto: http://www.youtube.com/watch?v=gWufCLzYpdY


-Vuoi un ombrello?-, -No, grazie. Non ti preoccupare.-. -Non c’è mica da preoccuparsi per un ombrello.-, -Ha smesso di piovere.-. Non credo di aver commesso un errore. Scendo le scale, lui è lì che mi osserva affacciato alla ringhiera dell’interno dell’androne. Dal quinto al secondo piano alzo la testa di tanto in tanto: fanculo; sei bello; ti faccio un mazzo così e ridiamo. Poi ciao, la porta si chiude. No, non ho sbagliato, piove ancora e  va bene così. Un respiro, un sorriso e via sotto la pioggia. Confondimi, rapiscimi. In estate, la pioggia è una boccata d’aria fresca nella gabbia afosa dei giorni “normali”. È bene approfittarne nei pomeriggi delle domeniche solitarie. Se accetti questa condizione primordiale, devi accettare inevitabilmente anche il mal di testa.  Cammino sotto la pioggia, ho i capelli zuppi, la camicia tutt’uno col corpo e il jeans  nero dall’acqua. Appena  uscita dalla doccia, vestita. Incessante, sempre più forte viene giù, non ha alcuna intenzione di smettere. Dai, scendi troia, scopami. Penso. Non se lo fa neanche dire, il cielo sta venendo e io con lui. Ho la musica nelle orecchie, tendo le braccia verso l’esterno. Spalanco le mani. Tocco la pioggia. I passanti sotto gli ombrelli mi sorridono, io, invece, rido. È  stupendo perdersi. Adesso un po’ meno, ho mal di testa. Non ho commesso un errore, è stato bello fare all’amore con lei. 

domenica 10 luglio 2011

devi sorridermi


Porto i capelli corti e le maniche dorate, mangio da far schifo non voglio concedere al vino di salire velocemente e stordire quel poco di lucidità lasciata a galleggiare sulla materia. I piedi, dita storte, scivolano lentamente nella stanza, uno al seguito dell'altro, e, in sottofondo, la musica risuona una melodia leggera; la voce piena della nera soffoca tutto il volume della camera da letto. Una sigaretta accesa nella ceneriera di vetro ricamato, permette al fumo di salire e disegnare, danzando sinuosamente nell'aria, forme contorte e spigolose. Mi muovo, flemmatica, svogliata. Fuori la finestra Manhattan brilla forte, il cuore della Grande Mela, vermi dentro. La gatta, Lavinia, e un deliziosissimo vinello rosso mi tengono compagnia. Rido, quale migliore compagnia? Lasciatemi così, per sempre, a maledire il giorno della caviglia di ferro.  

sabato 9 luglio 2011

i baffi della moglie dell'uomo con l'occhio di vetro


E l’uomo con l’occhio di vetro cammina per strada. Ha per le mani una mazza di quelle da trekking. La osserva, facendola volteggiare per aria. Al suo seguito, la moglie. Il tipo con l’occhio di vetro è basso e ha i baffi. La moglie è più bassa di lui e ha più baffi di lui. Indossa un berretto arancione, il colore è simile alla tuta dell’uomo della panchina. Ma quello dorme e beve birra. Il caldo soffoca anche i baffi della moglie dell’uomo con l’occhio di vetro, continua a blaterare qualcosa. Sembrano non capirsi, lei ha l’aria stufa. Torneranno a casa, dopo la passeggiata, lui poserà tra le sue cianfrusaglie la mazza, lei preparerà la cena. E continueranno a parlarsi e a non capirsi. L’uomo del negozio viene fuori, raccoglie un fiore secco ai suoi piedi e lo osserva. Poi, rientra nel negozio. Ma lui non ha i baffi, solo un paio di occhiali da sole a specchio. Il bollettino meteo prevede per il week end 40°C, la città implode. Lei lo segue, sta sempre un passo dietro, e lui continua a parlare. Quando sembra raggiungerlo, la mazza gira per aria, costringendola ad indietreggiare. –E porca puttana- dice. Allora lui sposta la mazza nell’altra mano, dalla parte dell’occhio buono. Questa volta può guardarla bene anche tenendola al lato. Ha l’aria fiera, ora. La moglie è comunque stufa. Girano l’angolo. Urlano, continueranno a non capirsi comunque.

venerdì 8 luglio 2011

Descrizione di una giornata strana – 2 maggio 2011, Roma

È uno di quei giorni in cui metti il piede sul marciapiede della strada, fuori il portone di casa, e ti sembra diverso. Lo percepisci in un nanosecondo. Il marciapiede è morbido. Anche io sono diversa, oggi. Cammino a rilento, per ore ed ore. Non sento la stanchezza, nonostante abbia dormito due ore o poco più. Potrei cadere con la testa in terra, piantarla in un vaso e farla crescere. La innaffierei ogni giorno, arriverei a sperare di poterne cogliere i semi e piantarne altre. Cloni. Fumo, le sigarette danno soddisfazione in questi casi, così come le cuffie dell’i-pod incastrate nelle orecchie. Un cuscinetto l’ho perso, chissà dov’è. La musica mi isola dal resto, i rumori e il chiacchiericcio costanti della città svaniscono, si perdono. La melodia è lenta, anche lei, ma incalzante. Accompagna rigorosamente il passo leggero di una camminata pesante. Gira gente strana. Un uomo con gli occhi di fuori e una bottiglia di vetro, la tiene pericolosa nelle mani, si agita e lo strazio di un: “Bocchinara! Ti verrò a vedere al cimitero!” a circa dieci centimetri dai visi delle donne terrorizzate: me ed Ilaria, ad esempio. Facce americane, polacche. Occhi azzurri e pelle bruciacchiata dal sole, nascosto tra le nubi che ricoprono di grigio cenere il cielo. Nessuno sprazzo di azzurro. Che cazzo fanno barriera. Impediscono il disinvolto andare della passeggiata con Fabio. Stiamo fermi, chiacchieriamo di quanto sia strana la giornata. Passano gli stranieri. Passiamo anche noi. Anche lui è strano. I cani si fanno guerra e i gabbiani non urlano. Il gelato si scioglie. Entriamo qui: ti piacciono gli orologi? Si, mi piace quello tutto nero. Guarda che ho ragione io costa 200 euro in più. Sì, hai ragione. Hai ragione. Ridiamo. Forse è la fitta e insistente presenza dei pollini a rendere l’aria tesa in un telaio di luce soffusa, cauta nell’illuminare gli oggetti, i volti. Le auto parcheggiate mi sfrecciano a sinistra, ma non sto correndo, i riflessi degli alberi e delle case di via Merulana mi osservano dai vetri splendenti, neanche una cacata di piccione. Eppure ce ne sono troppi. Quella ragazza già la conosco, non ricordo. Piove a malapena. La macchina fotografica ne sa qualcosa. A tratti potrei urlare. Che cazzo fate stronzi? Che succede, perché non vi riconosco, persone? Cosa mi state nascondendo? La giornata sta nascondendo a tutti qualcosa, il giorno mi nasconde qualcosa. Non ve ne accorgete? Io si. Il pensionato calabrese, leghista, naturalmente, blatera da troppo tempo. Ilaria non lo ascolta, o meglio, fa finta. Io faccio finta di accogliere le sue lamentele, cristo sono due ore che aspettiamo l’autobus, ti prego passa. Non ne posso più del vecchio verde. Gli anziani oggi sono strani, sono ringiovaniti tutti. Parlano tra loro e si divertono a fare battute, si incazzano se non ridi, portano le borse della spesa piene con una facilità non indifferente, ti spingono sull’autobus e portano a cacare il cane dei nipoti. Però il calabrese padano si lamenta del fatto che il suo abbonamento per i mezzi pubblici vale solo a Roma e non a Torino, dove va a trovare il figlio, e non in Calabria, il suo paese, e non a Parigi, dove le metrò sono straordinariamente veloci ed efficaci. Fai il pittore e sei così un buzzurro. Vai a cacare coi cani. Hai portato il bazooka, mi chiede. No, già l’ho usato, penso. Sulla sinistra stanno smontando il palco. Le solite facce bruciacchiate, coi segni delle canotte sulle spalle, procedono in processione verso la chiesa. Mi accodo, intanto, penso, rubo qualche scatto. Se alzo gli occhi, mi accorgo di quanto il cielo sia grigio e di quanto gli operai debbano ammazzarsi per sgomberare tutta quella roba, quanto mi piace veder smontare i palchi. Il pensiero viaggia in quella dimensione, sconosciuta a noi terrestri. Toni. Ti penso. Con te li ho montati i palchi e non solo. Mi avvio in chiesa. C’è un gruppo di suorine nere, tutte uguali, munite delle ultime tecnologie: fotografano i dipinti, le statue. Il momento più atteso. Navata sinistra, illuminata da un fascio di luce, proveniente da dove? La musica risuona ancora. Il gruppo di suorine tende a sinistra, si inchinano all’unisono. Clic. Spero di aver dato la giusta esposizione. Ma il tempo, in quel momento, è stato un ralenti per loro. Anche per me. Stanotte farò di nuovo le cinque. Lo schermo gigante e il signore di spalle. Li ho presi. Il mercato a Campo dei Fiori, Mirta e gli altri parlano di book fotografici. Io osservo il ragazzo col cappello: lui, lui, lui è perfetto. Nessuno mi ascolta. Pazienza.Non mi va di togliermi gli occhiali. Non va bene, ho bisogno di guardarti negli occhi. Non mi va. Ok, ma non mi piace parlare con le persone che non tolgono gli occhiali da sole. Anche perché di sole se ne vede poco. È tutto grigio. Non ho voglia di tornare a casa. Infatti non torno. Più tardi. Sono costipata tra le mura e la strada, è umido, grigio. Ora piove di brutto e Tonno è nervoso. Oggi è stato stronzo, ora fa il ruffiano e viene ad abbracciarmi di tanto in tanto. Spesso è sulle mie gambe. Ora è sulle mie gambe. Si agita. C’è un cane che piscia tra le piante del fioraio accanto a noi, ho una pizza bianca in bocca e un cameriere con tanto di papillon è affacciato alla finestra e urla qualcosa a qualcuno. Non capisco, lo fotografo. Il giorno vuole nascondermi qualcosa. E il polline mi stringe la gola. Maledetta primavera, Ilaria pensa, come me, è inutile. Non si sa mai come vestirsi di questi tempi. Ho sonno. Fuori piove. Per un po’ ho avuto l’impressione di essere vicina alla fine. Sarei pronta a giurarlo. Le suorine vanno via, si voltano, sempre coordinate, e lasciano spazio a quattro donne all’inginocchiatoio che ammirano un dipinto. Clic. Intanto il prete nella casetta di legno, dove i fedeli vanno a raccontargli i propri cazzi, firma e timbra delle carte. Sembra di stare alle poste. Io ho da fare una raccomandata con ricevuta di ritorno è una cosa importante. Quella raccomandata mandata il giorno prima della data di chiusura delle iscrizioni. Rido. So che lo fai anche tu. Quando pensi di essere vicino alla fine, si stringono le chiappe è inevitabile. L’aria si è fatta dura, credo di avere un mal di testa atroce, ma solo sulla tempia destra. Mi tocco, non si sa mai. In testa. Sembra tutto ok, tranne un graffio di Tonno. Non ti sembra tutto strano oggi? Si, è vero. Siamo vicini alla fine, Fabio. Proprio ora. Sei bello. Continuiamo a camminare, una ragazzina è sporca di farina che sembra altro in faccia, e un prete ride. Si vedono tutti i dentoni, del prete. Fai schifo. Tonno dorme. Questo giorno è interminabile. Dovrei andare a dormire. L’odore è nell’aria ma non si sente, ibernato. E piove ancora. Un giorno senza odore è un giorno strano. Mi sta nascondendo qualcosa, questo giorno.



vino bianco va bene? si.

http://www.youtube.com/watch?v=iWOyfLBYtuU

La tavola è al centro della cucina. Novantatré, tra il frigo e i vassoi, le palle di riso col pesce. Bacchette alle mani e via. –Non sono capace-, la salsa di soia esplode dalla ciotolina. Il salmone scappa alla presa delle bacchette e si tuffa nella soia. –Faccio con le mani, và-. Sono tutti agili nel maneggiare gli arnesi di legno. –Ma è presto!-, Paco fa notare agli altri. Le 21, ore in cui frigo e vassoi restano vuoti.
Qual è il citofono. Francesco e Sara fanno capolino alla finestra urlando il mio nome. La signora, seguita da figlia e amici della figlia, chiama il mio nome. –Ah, grazie-. –Sali, secondo piano!- .
I fogli A4 sono ora sul tavolo. Le amiche girano e girano, siamo allegri. Ivan sorride, ride. Pastelli colorati, penne e matite. La concentrazione sale. Tre minuti, solo tre minuti e poi cambio. La radio passa musica di merda. Ma non importa, siamo troppo concentrati sul foglio, nessuno sente nessuno. Alzo gli occhi e sono nella vecchia aula, fogli attaccati ovunque, due bambini si stanno litigando un Carioca, un altro guarda le mutandine a pois rosa e bianchi della bambolina che gli sta di fronte. E la maestra che sorride tra le schiere infinite di banchetti verdi. Continua a disegnare, penso.
-Che ne dite di un gelato?-, Sara muore dalla voglia di dolce. Tutti vogliamo il dolce. Tutti seduti in panchina col gelato nello stomaco e una sigaretta per chiudere in bellezza. I ragazzini giocano a calcetto, la palla ci travolge. Corro, sfreccio, la palla è sempre sotto i miei piedi. Stop. Calibro il tiro. La panchina ci accoglie e ci lascia tutti. Vogliamo altro sushi, fette biscottate con la Nutella e crostini con uova di pesce.