venerdì 8 luglio 2011

Descrizione di una giornata strana – 2 maggio 2011, Roma

È uno di quei giorni in cui metti il piede sul marciapiede della strada, fuori il portone di casa, e ti sembra diverso. Lo percepisci in un nanosecondo. Il marciapiede è morbido. Anche io sono diversa, oggi. Cammino a rilento, per ore ed ore. Non sento la stanchezza, nonostante abbia dormito due ore o poco più. Potrei cadere con la testa in terra, piantarla in un vaso e farla crescere. La innaffierei ogni giorno, arriverei a sperare di poterne cogliere i semi e piantarne altre. Cloni. Fumo, le sigarette danno soddisfazione in questi casi, così come le cuffie dell’i-pod incastrate nelle orecchie. Un cuscinetto l’ho perso, chissà dov’è. La musica mi isola dal resto, i rumori e il chiacchiericcio costanti della città svaniscono, si perdono. La melodia è lenta, anche lei, ma incalzante. Accompagna rigorosamente il passo leggero di una camminata pesante. Gira gente strana. Un uomo con gli occhi di fuori e una bottiglia di vetro, la tiene pericolosa nelle mani, si agita e lo strazio di un: “Bocchinara! Ti verrò a vedere al cimitero!” a circa dieci centimetri dai visi delle donne terrorizzate: me ed Ilaria, ad esempio. Facce americane, polacche. Occhi azzurri e pelle bruciacchiata dal sole, nascosto tra le nubi che ricoprono di grigio cenere il cielo. Nessuno sprazzo di azzurro. Che cazzo fanno barriera. Impediscono il disinvolto andare della passeggiata con Fabio. Stiamo fermi, chiacchieriamo di quanto sia strana la giornata. Passano gli stranieri. Passiamo anche noi. Anche lui è strano. I cani si fanno guerra e i gabbiani non urlano. Il gelato si scioglie. Entriamo qui: ti piacciono gli orologi? Si, mi piace quello tutto nero. Guarda che ho ragione io costa 200 euro in più. Sì, hai ragione. Hai ragione. Ridiamo. Forse è la fitta e insistente presenza dei pollini a rendere l’aria tesa in un telaio di luce soffusa, cauta nell’illuminare gli oggetti, i volti. Le auto parcheggiate mi sfrecciano a sinistra, ma non sto correndo, i riflessi degli alberi e delle case di via Merulana mi osservano dai vetri splendenti, neanche una cacata di piccione. Eppure ce ne sono troppi. Quella ragazza già la conosco, non ricordo. Piove a malapena. La macchina fotografica ne sa qualcosa. A tratti potrei urlare. Che cazzo fate stronzi? Che succede, perché non vi riconosco, persone? Cosa mi state nascondendo? La giornata sta nascondendo a tutti qualcosa, il giorno mi nasconde qualcosa. Non ve ne accorgete? Io si. Il pensionato calabrese, leghista, naturalmente, blatera da troppo tempo. Ilaria non lo ascolta, o meglio, fa finta. Io faccio finta di accogliere le sue lamentele, cristo sono due ore che aspettiamo l’autobus, ti prego passa. Non ne posso più del vecchio verde. Gli anziani oggi sono strani, sono ringiovaniti tutti. Parlano tra loro e si divertono a fare battute, si incazzano se non ridi, portano le borse della spesa piene con una facilità non indifferente, ti spingono sull’autobus e portano a cacare il cane dei nipoti. Però il calabrese padano si lamenta del fatto che il suo abbonamento per i mezzi pubblici vale solo a Roma e non a Torino, dove va a trovare il figlio, e non in Calabria, il suo paese, e non a Parigi, dove le metrò sono straordinariamente veloci ed efficaci. Fai il pittore e sei così un buzzurro. Vai a cacare coi cani. Hai portato il bazooka, mi chiede. No, già l’ho usato, penso. Sulla sinistra stanno smontando il palco. Le solite facce bruciacchiate, coi segni delle canotte sulle spalle, procedono in processione verso la chiesa. Mi accodo, intanto, penso, rubo qualche scatto. Se alzo gli occhi, mi accorgo di quanto il cielo sia grigio e di quanto gli operai debbano ammazzarsi per sgomberare tutta quella roba, quanto mi piace veder smontare i palchi. Il pensiero viaggia in quella dimensione, sconosciuta a noi terrestri. Toni. Ti penso. Con te li ho montati i palchi e non solo. Mi avvio in chiesa. C’è un gruppo di suorine nere, tutte uguali, munite delle ultime tecnologie: fotografano i dipinti, le statue. Il momento più atteso. Navata sinistra, illuminata da un fascio di luce, proveniente da dove? La musica risuona ancora. Il gruppo di suorine tende a sinistra, si inchinano all’unisono. Clic. Spero di aver dato la giusta esposizione. Ma il tempo, in quel momento, è stato un ralenti per loro. Anche per me. Stanotte farò di nuovo le cinque. Lo schermo gigante e il signore di spalle. Li ho presi. Il mercato a Campo dei Fiori, Mirta e gli altri parlano di book fotografici. Io osservo il ragazzo col cappello: lui, lui, lui è perfetto. Nessuno mi ascolta. Pazienza.Non mi va di togliermi gli occhiali. Non va bene, ho bisogno di guardarti negli occhi. Non mi va. Ok, ma non mi piace parlare con le persone che non tolgono gli occhiali da sole. Anche perché di sole se ne vede poco. È tutto grigio. Non ho voglia di tornare a casa. Infatti non torno. Più tardi. Sono costipata tra le mura e la strada, è umido, grigio. Ora piove di brutto e Tonno è nervoso. Oggi è stato stronzo, ora fa il ruffiano e viene ad abbracciarmi di tanto in tanto. Spesso è sulle mie gambe. Ora è sulle mie gambe. Si agita. C’è un cane che piscia tra le piante del fioraio accanto a noi, ho una pizza bianca in bocca e un cameriere con tanto di papillon è affacciato alla finestra e urla qualcosa a qualcuno. Non capisco, lo fotografo. Il giorno vuole nascondermi qualcosa. E il polline mi stringe la gola. Maledetta primavera, Ilaria pensa, come me, è inutile. Non si sa mai come vestirsi di questi tempi. Ho sonno. Fuori piove. Per un po’ ho avuto l’impressione di essere vicina alla fine. Sarei pronta a giurarlo. Le suorine vanno via, si voltano, sempre coordinate, e lasciano spazio a quattro donne all’inginocchiatoio che ammirano un dipinto. Clic. Intanto il prete nella casetta di legno, dove i fedeli vanno a raccontargli i propri cazzi, firma e timbra delle carte. Sembra di stare alle poste. Io ho da fare una raccomandata con ricevuta di ritorno è una cosa importante. Quella raccomandata mandata il giorno prima della data di chiusura delle iscrizioni. Rido. So che lo fai anche tu. Quando pensi di essere vicino alla fine, si stringono le chiappe è inevitabile. L’aria si è fatta dura, credo di avere un mal di testa atroce, ma solo sulla tempia destra. Mi tocco, non si sa mai. In testa. Sembra tutto ok, tranne un graffio di Tonno. Non ti sembra tutto strano oggi? Si, è vero. Siamo vicini alla fine, Fabio. Proprio ora. Sei bello. Continuiamo a camminare, una ragazzina è sporca di farina che sembra altro in faccia, e un prete ride. Si vedono tutti i dentoni, del prete. Fai schifo. Tonno dorme. Questo giorno è interminabile. Dovrei andare a dormire. L’odore è nell’aria ma non si sente, ibernato. E piove ancora. Un giorno senza odore è un giorno strano. Mi sta nascondendo qualcosa, questo giorno.



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